UNITALSI: Il ricordo del terremoto dell’Irpinia quarant’anni dopo

Le immagini del 23.11.1980, terremoto in Irpinia, e del tempo che ne seguì mi hanno fatto fare un balzo al cuore, perché quella esperienza è stato una trauma che mi porto dentro da quarant’anni.

La sera del 23 novembre, quando la TV dette la notizia della scossa tellurica in Irpinia, non si comprese subito il dramma che era iniziato; mentre tv e radio trasmettevano informazioni frammentate e non gravemente allarmanti, nella sede della radio privata della parrocchia dove stavamo passando la domenica sera,  ascoltavamo i radioamatori delle zone colpite raccontare concitati e spesso disperati, usando gli apparati che avevano nelle auto, quello che era capitato nei loro paesi: una distruzione inimmaginabile.

A chi credere? che facciamo? decidemmo … senza troppo riflettere … che dovevamo andare a vedere di persona. E così  partimmo in quattro, prima dell’alba del 24 novembre,  in una 127 rossa munita di “baracchino” per comunicare e arrivammo – seguendo i cartelli stradali e le notizie dei radioamatori –  in un paesino del cratere, di cui taccio il nome per non rinnovare dolore e polemiche. Sembrava appena finito un bombardamento: gente che vagava con gli occhi sbarrati o singhiozzando, dopo una notte passata al buio, un paese con il corso principale dove c’erano solo macerie, la parte superiore in cemento armato di un campanile caduta su una casa che aveva interamente distrutto; la morte, ovunque; lo sguardo di chi ci venne incontro credendo che fossimo l’inizio dei soccorsi; la morte e ancora la morte, con gente che gridava i nomi dei familiari che non trovava e che scavava con le mani; una chiesa in cui si cominciavano a trasportare i corpi che si era riusciti ad estrarre dalla macerie;

Una strage.

E capimmo subito che era accaduto l’inimmaginabile e che il nostro compito era reagire, subito.

Iniziò così un’avventura drammatica e straordinaria che segnò allora anche la vita della nostra associazione, chiamata a condividere il dolore e la speranza, la morte e la vita.

Per diversi mesi molti di noi lasciarono tutto, studi e impegni, famiglie e amici; un impegno di presenza e di fatica: poche parole, molta rabbia per il disastro di soccorsi che ci parevano malissimo organizzati soprattutto nel primo periodo, tanti barellieri e sorelle di carità e amici di parrocchie e movimenti tirati giù dal letto comodo della solidarietà a distanza, fatta di offerte e buone parole, perché condividessero freddo e disagi e si immergessero nel dolore del mondo, respirassero il vento tossico della disperazione e del bisogno, per riossigenarsi con l’aria pulita della condivisione e del lavoro di solidarietà e riaggregazione; immersi nel fango dei paesi distrutti, sporchi come tanti, ma con il cuore carico di una passione terribile per la vita di chi stava soffrendo.

Ricordo ancora lo sguardo sbigottito della mia Presidente di Sezione dell’epoca quando ci presentammo nella sede sezionale tornando da Teora, piccolo e indimenticabile paese, inguardabili perché eravamo vestiti “da combattimento”, ma così determinati che bastarono poche “appropriate e dure parole” per convincerla e mettere in moto, con il suo grande cuore,  la catena della solidarietà.

E fu l’inizio di un impegno straordinario: ricordo tanto impegno e tanti nomi … l’impegno di Rocco, Ubaldo, Salvatore, Federico, Dante, Paolo… di tanti nostri soci e di tanti scouts presenti sin dall’inizio, tanti barellieri e tante sorelle provenienti da tutta Italia  arrivati in tanti paesi e paesini  a sopportare e condividere fatiche e disagi … così tanti e diffusi, ma privi di un rapido ed efficiente coordinamento centrale, così che certe volte nemmeno sapevamo che nello stesso paese c’erano tanti altri nostri amici; i nostri  cucinieri e i vagoni  cucina spostati nelle stazioni dei paesi terremotati per preparare i pasti, le nostre vecchie barellate….

Arrivarono unitalsiani da tutta Italia.

Abbiamo conservato, chi c’era, ricordi indelebili ed immagini terribili; venimmo travolti da una tragedia enorme, respirammo sgomenti la morte, ascoltammo lacrime e disperazione, fummo schiantati inizialmente da un senso di rabbiosa impotenza per la grandezza del disastro, costruimmo poi rapporti di amicizia e di aiuto, scrivemmo una pagina nuova – con tanti altri volontari e con tante altre associazioni – per l’Unitalsi.

Ma chi visse all’epoca quella tragedia sa quanto costò in termini familiari, amicali, ecclesiali: la nostra giovinezza di allora ci portò a non avere pazienza nei confronti di chi ci sembrò timido o lento, di chi voleva fare grandi progetti mentre quella mattina del 24, nella nostra 127 rossa, cominciammo a chiamare via radio pieni di concitazione e sgomento una serie di “troppo riflessivi” personaggi che chiedevano tempo per organizzare, mentre la gente soffriva per il freddo intenso e la mancanza di un luogo dove ripararsi; e la rabbia per i soccorsi che ci sembravano lenti, per il caos, per la mancanza iniziale di coordinamento e di piani seri di interventi in emergenza, per le inutili passerelle di personaggi più o meno noti;  la commozione del grande  Giovanni Paolo II e  le parole dure  e il volto segnato dell’amatissimo Presidente Pertini; e poi arrivò Zamberletti, il Commissario Straordinario, e ci sembrò che potesse iniziare finalmente una fase nuova.

Teora, Balvano, Sant’Angelo dei Lombardi, Pescopagano, Lioni, Conza della Campania…luoghi e volti scritti nel cuore a lettere di lacrime.

L’impegno in Irpinia durò per mesi molti mesi.

Partecipai anche ai progetti di ricostruzione sociale organizzati dalla Caritas di Bari di don Vito Diana…campi di lavoro, lavori di recupero, socializzazione con bambini e adulti…

Tornavo a casa a volte dopo giorni e giorni di assenza…mio padre si chiedeva perché stessi ancora lì invece che a casa a studiare, visto che in tv si vedevano le immagini dei soccorsi e si cominciava a pensare che fosse arrivato il tempo dello Stato efficiente che soccorreva e dei professionisti che intervenivano ovunque…ma in quel mare di dolore e di voglia di vivere sentivo che c’era bisogno che ci fossi anche io, che ci fosse l’Associazione, sentivo che era una “questione personale” tra me e il dolore del mondo e che la mia giovinezza era chiamata a diventare adulta.

Fu allora che nacque il desiderio che l’Unitalsi si organizzasse perché di fronte alle tragedie piccole o grandi del nostro Paese e delle nostre città, avesse una struttura in grado di intervenire in maniera efficiente e coordinata; nacque allora – come nacque in Italia – il desiderio di diventare anche noi esperienza organizzata di intervento di emergenza, ma con quella stessa decisione e con quella stessa volontà quasi rabbiosa di esserci che avevo vissuto in Irpinia… un desiderio che poi, condiviso con gli amici di allora, ci ha portati qualche anno fa a fare anche dell’Unitalsi una struttura di protezione civile. Il ricordo e il trauma di quel dolore e di quella esperienza, per me  e per chi c’era allora, sono ancora lì nel mio cuore, a farmi guardare come a cosa vana ad un certo esibizionismo da emergenza e a farmi pensare le stesse cose che dissi a quel tempo a mio padre: c’è bisogno che ci sia sempre anche io, senza preoccupazioni di ruoli che lascio volentieri a chi di ruoli vive;  che ci sia anche io con il mio impegno, la mia rabbia per la sciatteria e con la mia ora acquisita pazienza verso i più tiepidi, che ci sia anche io perché questo mio essere adulto e non più giovane come lo ero allora conservi i colori accesi della voglia di condividere la ordinaria umanità, sofferente e/o gioiosa che sia, perché solo così la mia appartenenza associativa e la mia esperienza di fede avranno ancora il profumo del futuro e della vita.

E in questo tempo così difficile, quella tragedia di 40 anni fa, ci spinge ancora una volta a rimetterci in gioco, a pensare ad un nuovo cammino, perché da questa grande sofferenza emerga, oggi come allora, una speranza fatta di impegno associativo e il desiderio di “prendersi cura” l’uno dell’altro, a cominciare da chi  è più fragile e più solo.

Testo di Antonio Diella, presidente nazionale Unitalsi.

Per le immagini si ringrazia Nino Cutro, giornalista.


Pubblicato il 23 Novembre 2020