In questa giornata vogliamo riproporre il racconto del pellegrinaggio dei giovani svoltosi in Polonia nel 2011. In particolare le interviste realizzate da Daniele Rocchi (giornalista della Agenzia Sir) durante le visite nei Campi di Auschwitz-Birkenau.
“Vojo vede’ coll’occhi mia quello che hanno fatto… Hai visto come è facile mori’? Mori’ è facile…”
(da Auschwitz-Birkenau) – “Vojo vede’ coll’occhi mia quello che hanno fatto. Hai visto come è facile morì, morì è facile…”. Davanti al “Block 5” Federico A. alza la voce dallo spiccato accento romano, perché vuole entrare e vedere in prima persona le foto, le testimonianze, i ricordi, i documenti di uno dei luoghi più famigerati di Auschwitz, lo “Stammlager” (lager principale), l’originario “Konzentrationslager” (campo di concentramento) dove dal 14 giugno 1940 furono internati decine di migliaia di prigionieri e dove in una piccola camera a gas vennero uccise 70 mila persone. Federico è giunto in Polonia con il pellegrinaggio nazionale dei giovani dell’Unitalsi sulle orme di Giovanni Paolo II che prevede nel programma anche una tappa ad Auschwitz e al vicino lager di Birkenau, “Vernichtungslager” (campo di sterminio) dove vennero sterminati un milione di persone, ebrei ma anche zingari, omosessuali e disabili. Federico vuole sapere perché e come “i nazisti uccidevano gli storpi, i ciechi e le persone carrozzate come me”.
E la domanda non lascia scampo alla guida del campo invitata a rispondere ad un ragazzo di 21 anni che, essendo affetto da tetraparesi spastica, vive e si muove in carrozzella, “la mia seconda pelle”. L’accompagnatore di Federico, aiutato da altri giovani volontari della sezione romana dell’Unitalsi, a questo punto non può far altro che sollevarlo e portarlo dentro il blocco, nonostante gli spazi stretti e non accessibili alle persone in carrozzina. Ma Federico vuole sapere e mentre la guida spiega, mostrando attraverso le foto e i documenti esposti le atrocità naziste perpetrate ai danni di uomini, donne, anziani e bambini, chiede “ma che male ha fatto tutta ‘sta gente? ‘Sti bambini che colpe hanno?’”. Poi si rende conto dell’imbarazzo della guida alla quale chiede scusa per “la domanda cruda e diretta, ma io so’ fatto così”. Arrivano le foto di bambini denutriti, dai volti terrorizzati, tra cui quella di una bambina di 2 anni unica sopravvissuta di 3 gemelli agli esperimenti di Josef Mengele, lo “zio dei bambini di Auschwitz” come si faceva chiamare dalle “sue cavie”, e i disegni di un internato, Mieczyslaw Koscielniak, che racconta i maltrattamenti quotidiani cui i prigionieri erano sottoposti dai soldati tedeschi e dai Kapò. Federico non trattiene le lacrime: “Se fossi vissuto in quel tempo, oggi non sarei qui. I nazisti sopprimevano anche i disabili. Oggi mi sono messo nei loro panni e sono morto con loro. Essere qui, in questo luogo, mi impegna a testimoniare che il male esiste ma anche a dire che la sofferenza redime. Gesù ce lo ha insegnato. Tutte queste persone non sono morte invano, racconterò a chiunque di questa visita, per questo sono voluto entrare. Non farlo sarebbe stata una fuga dalla sofferenza e dalla verità. Qual è lo scopo della nostra vita se non lasciare delle orme di bene? Per me ciò equivale ad affrontare la sofferenza con caparbietà, tenacia, guardarla bene in faccia. Usciamo da Auschwitz più forti di prima”.
“Ho paura, ma ci entro lo stesso”. È stato il primo pensiero di David V., ragazzo della Sezione romana-laziale dell’Unitalsi, affetto anche lui, come Federico, da una tetraparesi spastica, non appena si è trovato davanti al cancello del campo di sterminio di Auschwitz. Cancello sovrastato dalla scritta in tedesco “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi), realizzata dall’internato Jan Liwacz. Questa frase nel corso degli anni ha assunto un forte valore simbolico che “racchiude tutta la menzogna e la barbarie del regime nazista”. Aveva paura David, ma è entrato lo stesso. Alla fine della visita rivela di sentirsi “molto scosso”. In particolare, “apprendere che migliaia di bambini e disabili hanno dovuto pagare con la morte la loro innocenza mi ha fatto capire che la violenza non guarda in faccia nessuno. Tutto questo mi ha riportato con la mente agli anni in cui frequentavo l’istituto agrario: anch’io ho dovuto scontare il mio essere diversamente abile, subendo angherie e scherzi di cattivo gusto che, anche se nemmeno minimamente paragonabili all’orrore di Auschwitz, generano ugualmente molta sofferenza in un ragazzo che ha come unico sogno quello di un mondo senza barriere”. “Spot e campagne di sensibilizzazione per bambini e disabili, infatti – rimarca il giovane – non servono ad eliminare queste barriere, servono solo a nasconderle. Basterebbe solo parlare di meno e cominciare a camminare tutti insieme, sia chi sta in piedi sia chi sta su una carrozzina, in un’unica direzione: Cristo e la sua croce.
Il pellegrinaggio nella terra natale di Giovanni Paolo II, il Papa vicino ai deboli, mi ha dato la conferma che la vita è una cosa meravigliosa e che la sofferenza va vissuta con orgoglio e dignità, senza vergogna”. Aveva paura David, ma è entrato lo stesso. E ora concludendo la sua riflessione questo giovane, che scrive poesie e recita a teatro, confessa che anche se nel suo cuore “c’è molta rabbia per le atrocità viste”, ora “non ha più paura”. Federico e David escono insieme ai loro accompagnatori e guardano decine di giovani israeliani che, avvolti nella bandiera con la stella di David, cantano abbracciati davanti ai forni crematori. Una scena che scuote e che fa dire loro: “Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, dovrebbe venire qui per riflettere, pregare e gridare: ‘Mai più!’”.
Pubblicato il 27 Gennaio 2020