Convegno Nazionale Pastorale della Salute: è tempo di andare al cuore della cura

La salute è stata protagonista del dibattito e del confronto stimolato dal Convegno nazionale della Cei (Roma 12-14 maggio). Restituire centralità al cuore. Pazienti, famiglie, curanti: la sofferenza interroga tutta la vita, mette in gioco il corpo, interpella l’umanità di tutti. Ed è sempre più chiaro che a rivelarsi decisive oggi sono le relazioni.

C’è un cuore che batte al centro di ogni percorso di cura, e non solo perché del cuore di un paziente si misura il battito, o lo stato di salute, o la tenuta rispetto alle terapie e agli interventi che si prospettano in ogni percorso di malattia. Lui, il paziente, è il cuore, con le sue fragilità, i suoi interrogativi, la sua storia di vita interpellata e spesso stravolta dalla sofferenza. Il medico è il cuore, con le sue parole, le sue competenze, con la sua, anche, di storia di vita, altrettanto interpellata dal male che si trova davanti e dalla risposta che è chiamato a dargli perché non prevalga. Le famiglie dei pazienti sono il cuore, ciascuna col proprio diverso modo di farsi carico del dolore, col proprio spazio di relazione sfidato dalla malattia, con la solitudine e le paure.

Viviana Daloiso in dialogo con Gianni Cervellera in un momento del convegno Cei di Pastorale della salute

A guardarla così, quella che con un termine generico ed esteso viene chiamata “salute”, ha a che fare con l’umano prima che con ogni altro paradigma quantitativo o tecnico con cui la si voglia approcciare. Nel tempo dell’algoritmo ci si accontenta dei parametri vitali, ci si arrovella sulle liste d’attesa, sui codici di esenzione, sui livelli essenziali di assistenza. Ecco allora spiegato il ruolo e il valore imprescindibile di una pastorale della salute, che durante il convegno nazionale di Pastorale della salute è stata protagonista del dibattito e del confronto stimolato dal Convegno nazionale della Cei (12-14 maggio): restituire centralità al cuore. Non solo nel senso astratto e romantico dell’affetto, ovviamente, ma – in una società che l’umano tende a medicalizzarlo e progressivamente a marginalizzarlo, assieme alla sua vulnerabilità – come capacità di ascolto profondo dell’altro, di empatia, di presenza gratuita.

Il cuore come spazio fisico di incontro di una persona in carne e ossa con un’altra in cui si intrecciano la fede, la fragilità, la speranza, la fiducia; il cuore come luogo vivo e vissuto sulla propria pelle della relazione di cura. La pista ce l’ha indicata il compianto papa Francesco con l’enciclica Dilexit nos, che non a caso è stata riletta in una delle sessioni dell’evento proprio in un’inedita chiave sanitaria. Gesù d’altronde è il primo operatore di pastorale della salute della storia con la sua capacità di curare e di guarire il male (fisico o spirituale che sia) attraverso la parola, lo sguardo, i gesti. Ciechi e storpi vengono chiamati per nome, guardati nel loro essere persone e infine toccati da Cristo prima di vedersi risanati. Come dire: nel tempo della malattia e persino della morte, il significato non si trova e non può essere trovato nei protocolli, ma nelle relazioni. E la cura non è mai tecnica, o non solo, ma amore incarnato. Una testimonianza che la speranza può germogliare anche dove la scienza tace e dove la politica vorrebbe, per comodità e spesso per consenso, far finta che la dignità della vita umana non esista più.

di Viviana Daloiso, avvenire.it


Pubblicato il 21 Maggio 2025